Kermes 109 – Dossier sulla Street art

L’introduzione al Dossier scritta da Giorgio Bonsanti


Considerazioni sulla Street art

Prefazione

Giorgio Bonsanti

Quando si parla di supporto mobile riferito ai dipinti, si hanno in mente, sostanzialmente, la tavola o la tela, e dif­ficilmente ci riferiamo a un treno o a un tram (mobili per definizione). Eppure sono proprio questi i supporti mobili che al giorno d’oggi ci vediamo scorrere frequentemente davanti agli occhi, decorati con invenzioni pittoriche che vanno dai graffiti più banalmente insignificanti ai capolavori della migliore arte all’aperto (potrebbe esse­re, quest’ultima, un’alternativa terminologica all’“arte di strada”). E naturalmente i mezzi del trasporto collettivo non sono i soli oggetti sottoposti a questo tipo di decora­zioni, che si applicano a ogni genere di superficie pubblica esterna. Non avrebbe senso dilungarsi, nell’economia di queste annotazioni, a descrivere il fenomeno; lo conoscia­mo tutti, sappiamo di che cosa si tratta.

Ripeto piuttosto che parlando di street art occorrerà per prima cosa distinguere molto nettamente le scritte dei writers prive di qualsiasi connotazione creativa dalle ma­nifestazioni artistiche. Le prime equivalgono a nient’altro che a un selfie, un’azione indirizzata unicamente a dare conferma della propria esistenza al mondo a chi ne è au­tore. Le firme (nella loro essenza più antica, che si troverà in abbondanza già nelle cattedrali medievali) o le scritte prive di un contenuto qualsiasi (vista recentemente a Bo­logna: “non so che scrivere”) sono unicamente episodi di vandalismo (adopero senza mezzi termini questa termino­logia, così si capisce subito che non ho alcuna intenzione di connotarmi “politically correct”). Non dimostrano né trasmettono disagio esistenziale, corrispondono unica­mente a uno stadio primigenio di esistenza bruta, nuda e cruda, che può rivestire interesse soltanto per la persona che lo vive. L’auspicio è che il responsabile scopra altri modi per manifestare questo disagio, e altre maniere per farvi fronte; magari, che so, con un po’ di volontariato a favore di chi ne ha bisogno, ora che la politica tradizionale non mantiene più alcun richiamo. L’arte di strada invece (non parliamo qui, naturalmente, dei madonnari, o “stre­et chalk artists”; rispettabili, ma è altra cosa) che ci invita a ragionare un po’ sulle problematiche conservative che presenta, è quella che noi, in linea di principio e salvo le ec­cezioni che descriveremo brevemente, identifichiamo con alcune specificità. Tradizionalmente, la si riconosce come un’arte irregolare, spontanea, anonima, un gesto di sfida e di contestazione nei confronti di una società massificata e asservita. Come Zorro, si sposta imprevedibile nottetem­po, colpisce lasciando il suo segno e scompare. Questo ai tempi dell’origine del fenomeno; perché successivamente è nata e si è accreditata come arte di strada anche quella che lavora apertamente alla luce del giorno, davanti a un pubblico incuriosito, magari rispondendo a una commis­sione pubblica o privata che ha offerto una retribuzione. In questi giorni le cronache della mia città (Firenze) ripor­tano un’intervista a Jorit Agoch, artista ventottenne già autore di altri interventi del genere giustamente apprez­zati. È in dirittura d’arrivo la sua creazione di un viso di Nelson Mandela a grandissime dimensioni, su un muro di civili abitazioni di realizzazione abbastanza recente, prossime a una grande Coop nella zona Nord-Ovest di Fi­renze, ampiamente fuori la cerchia dei viali [Ill.¹]. L’inizia­tiva è stata promossa dall’associazione Mandela Forum, e si sono aggiunti il Comune di Firenze, la Città Metropoli-tana di Firenze, Casa spa, Unicoop Firenze, e addirittura infine la fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. Questo per significare che nel nostro caso di clandestino non è ri­masto proprio niente: abbastanza ovvio, per decorazioni che per la loro realizzazione richiedono settimane, viste le dimensioni. E si potrebbero richiamare in quantità al­tri casi di ufficializzazione dell’arte di strada, e menziono soltanto il caso della decorazione di Blu e Ericailcane sul muro del PAC di Milano, addirittura commissionata da Vittorio Sgarbi in occasione della mostra Street Art Sweet Art (2007); o magari, aggiungo l’ormai celebre dipinto murale di Keith Haring a Pisa. Si potrebbe anzi osservare, sulla scorta di questi esempi, che le decorazioni sui e dei muri delle città potrebbero sempre più assumere in futu­ro il ruolo e la funzione che ebbe in passato la grande arte ecclesiastica, per tanti secoli percentualmente maggiori­taria rispetto alle commissioni destinate alla privatezza e ormai destinata a una sopravvivenza di nicchia: quella di provvedere opportunità, e quindi reddito, a tanti che al­trimenti si troverebbero a mal partito. In ogni caso, anche Jorit Agoch faceva presente, rispondendo alla giornalista, che la sua attività si divide fra le decorazioni originate da un incarico specifico e da una committenza (e quindi giustamente retribuite, come sicuramente meritano), e quelle che tuttora appartengono alla sua personale ur­genza di continuare anche a esprimersi spontaneamente. E dunque occorrerà rinunciare ormai a caratterizzare le creazioni di street art come fossero tutte quante azioni di protesta nate nella marginalità.

Che poi la street art sia pronta ormai a entrare, udite!, addirittura nei detestati musei, lo dimostrano le mostre che ormai se ne fanno diffusamente in tutto il globo, al­cune delle quali hanno assunto un valore e un’identità molto importanti per l’arte contemporanea; nel nostro Paese, a cominciare dalla prima, voluta dall’indimentica­ta Francesca Alinovi nel 1984, a Bologna. Naturalmente non si possono portare in esposizione le pareti delle case o dei cavalcavia, almeno all’interno di un museo o di una galleria d’arte; e allora, come del resto è abituale per tanta parte dell’arte contemporanea, si ricorrerà a dei surroga­ti: progetti preliminari, documentazioni di varia natura e simili, comprese anche le desunzioni a posteriori anche parziali (l’autore ripete su supporto mobile uno o più elementi “estraendoli” dal dipinto murale). E nasceranno anche per alcuni fra gli artisti le quotazioni monstre di Haring, Basquiat, Banksy. In qualche modo, lo stesso pro­cesso di realizzazione di un’opera potrà assumere carat­teristiche di “opera d’arte”, quelle di una performance, di un’installazione; e si riproporranno alcuni argomenti di dibattito tipici di queste forme d’arte, come la loro durabi­lità, la futura morte presunta (le “locations” non sono ide­ali, dal punto di vista conservativo) da accettare o meno, il problema se evitare l’accanimento terapeutico. Di suo, trattandosi di dipinti murali, si aggiungeranno le critici­tà molto specifiche della tipologia: è lecito strapparli dal muro (con qual tecnica, non interessa qui)? Soltanto nel caso di sicura, imminente rovina (inevitabile demolizio­ne del supporto, pensiamo ai capannoni industriali delle periferie): siamo autorizzati allo strappo, nel senso che qualsiasi utilizzo o destinazione futura sono preferibili alla distruzione? È necessario il consenso dell’autore? E se non lo si conosce oppure egli lo rifiuta, è lecito procedere ugualmente? A chi appartengono, i murales? All’autore, magari anonimo? Ai proprietari del supporto (casa, caval­cavia)? Alla società, alla città, al rione, al contesto urbano; e casomai, quanto esteso, fin dove? Sono tutti argomenti sui quali ci si è trovati costretti a meditare nel caso della recente mostra di Bologna (2016), avversata dagli autori dei dipinti: ma non proprio da tutti, se alcuni, anzi, ave­vano trovato gratificazione nel contribuire addirittura al catalogo…però il grande Blu ha proceduto a cancellare po­lemicamente a quel punto, per protesta contro lo stacco e il trasporto al Museo della storia di Bologna di alcuni suoi dipinti, diverse sue bellissime realizzazioni, come quella (del resto, già un palinsesto giunto alla quarta stesura) su un muro del centro sociale XM24; una reazione che conti­nua ad apparirmi del tutto puerile².

Comunque, su queste problematiche, con particolare riferimento alla città di Bologna, ho provato a ragionare nel mio contributo al con­gresso IGIIC del 2016 all’Aquila³, e non vorrei ripetermi, non avendo per mio conto altro da aggiungere. C’è un punto però sul quale mi ripeterò addirittura per la quarta volta, perché mi sembra essenziale e troppo spesso trascurato nelle considerazioni che da tante parti si svolgono sulla street art: quello del contesto. Premet­to che personalmente farei volentieri a meno di tutte le espressioni di street art che mostrano la sola ripetizione automatica di stencils o appartengono unicamente alla categoria delle scritte sui muri (che, come detto, sono sem­pre esistite, ma non per questo possiamo sentirci autorizzati a proseguire nella tradizione): un treno dipinto e brutalizzato di scritte continuo a considerarlo un’operazione vandalica, e non vedo perché dovrei accettare che ormai ingressi e uscite dalle stazioni ferroviarie si caratterizzi­no immancabilmente di offese selvagge per gli occhi; ma tant’è. Dove è indispensabile invece mantenere attenzione e controllo, e soprattutto rifiutare di cadere nella trappola del “politically correct”, è il caso della street art nei centri storici. La massima parte di essi ha assunto in Italia una particolare fisionomia, a seguito degli accrescimenti veri­ficatisi nel corso dei secoli, e che li ha visti rimanere assai più conservati che negli altri Paesi (ovvio che il mio ragionamento vale comunque per qualsiasi altro centro storico ovunque si trovi). I nostri centri storici sono opere d’arte in se stessi e in quanto tali, e qui davvero si richiama il significato più vasto di “arte”, in quanto τέχνη, saper fare dell’uomo in ogni campo. È loro preclusa di default qualsi­asi modifica che non sia rubricabile come restauro (salvo eccezioni assolute, io la palazzina di Frank Lloyd Wright sul Canal Grande ce l’avrei messa); e non è questo certa­mente il caso della street art. Né è ammissibile considerare i muri delle abitazioni dei nostri centri storici unicamente alla stregua di semplici supporti, non conclusi ma quasi in attesa di un intervento ulteriore che regali loro fisionomia e identità. Come mi è capitato di scrivere, possiamo amare Picasso, ma non accetteremmo che dipingesse un quadro sopra uno preesistente di Tiziano, quando gli fosse pos­sibile utilizzare l’ovvia alternativa di una normalissima tela vergine. Purtroppo proprio il caso del centro storico di Bologna, improvvidamente regalato anni fa alle bombo-lette spray non solo dalle autorità di governo ma anche da quelle cui compete l’educazione superiore, insegna con quanta facilità e superficialità si possa cadere vittime di fraintendimenti tanto da autorizzare e anzi incentivare vandalismi inimmaginabili⁴. Il discorso si fa del tutto di­verso se si esce dai centri storici e si entra nei quartieri limitrofi e nelle periferie. Non si tratta di creare gerar­chie di importanza nel corpo della città (i centri storici hanno diritto e pretesa di essere considerati, le periferie no perché valgono meno), ma di registrare le differenze oggettive che esistono fra una parte di città compiuta e storicizzata, e un’altra che si trova tuttora in movimento, soggetta a nuove interpretazioni e rielaborazioni. Man­tenendo vigile attenzione, della quale esisterà sempre la necessità, potremo allora prendere atto favorevolmente di una delibera del Comune di Firenze che individua le varie zone cittadine in cui è ammessa un’attività di street art (sottopassaggi, ponti ecc.: v.  https://www.comune.fi.it/ comunicati-stampa/murales-graffiti-stencil-ecco-la-map­pa-della-street-art-firenze). Già vi si scoprono decorazioni di bellissima inventiva e qualità di realizzazione, che han­no conquistato anche le fasce più anziane e tradizionaliste della popolazione locale. Il faccione di Nelson Mandela procurerà sicuramente qualche grattacapo ai conserva­tori del futuro, ma avrà svolto una funzione encomiabile. Però leggiamo anche che a Firenze si consentiranno anche le scritte sui bandoni e saracinesche dei negozi della ultracentralissima Via de’ Neri, a un passo dagli Uffizi e dal Palazzo della Signoria, già afflitta da un degrado che in­tender non lo può chi non lo prova (v. più sopra la nota 4). “Only connect”, era (fra molte altre cose) una parola d’or­dine di un grande storico dell’arte mancato nel 2003, John Shearman, che l’articolò in un bellissimo libro del 1992: tutta la realtà è dialettica, ogni cosa non è isolata ma parte di un sistema relazionale. Ugualmente utile a servizio del raziocinio umano sarebbe però l’altro suggerimento che conio in quest’occasione, “Only distinguish”, cerchiamo di operare le necessarie distinzioni.

NOTE

  1. Ciancabilla L., Omodeo, Chr., Street Art – Banksy  , L’arte allo sta­to urbano, catalogo della mostra, Bologna, marzo-giugno 2016, Bologna, Bononia University Press.
  2. Bonsanti G., Aperto per Restauri in “Il Giornale dell’Arte” n. 363, aprile 2016, Torino, Allemandi.
  3. Bonsanti G., Urban Art a Bologna fra distruzione e conservazione, in Lo Stato dell’Arte 14 – Atti del 14° Congresso dell’IGIIC, Accademia di Belle Arti dell’Aquila 20 – 22 ottobre 2016, Firenze, Nardini, 2016, pp. 231-235.
  4. Ugolini M. C., Bologna – Serrande dipinte, decoro urbano e tutela del centro storico, “Arkos”, N.S. 23, Aprile-Giugno 2010, pp. 44-48; Bonsanti G., Giotto di Bandone – Serrande dipinte a Bologna, “Ibid.”, pp.49-51.

 


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